Il racconto dell’ancella, Margaret Atwood

Ora Rachele vide che non poteva partorire figli a Giacobbe, perciò Rachele divenne gelosa di sua sorella e disse a Giacobbe: «Dammi dei figli, altrimenti muoio».

Giacobbe si adirò contro Rachele e rispose: «Tengo io forse il posto di Dio che ti ha negato il frutto del grembo?». Allora ella disse: «Ecco la mia serva Bilha. Entra da lei e lei partorirà sulle mie ginocchia; così anch’io potrò avere figli per suo mezzo». Genesi 30; 1-3.

il racconto dell'ancella controletture“Il racconto dell’Ancella” (The Handmaid’s tales) è un romanzo ambientato in un futuro non meglio precisato, dove un colpo di stato ha rovesciato quelli che conosciamo come gli Stati Uniti d’America instaurando un regime teocratico, l’immaginaria Repubblica di Galaad, il cui credo religioso si fonda sul richiamo biblico appena citato e sull’oppressione delle donne.

Ai vertici ci sono i Comandanti, a cui viene assegnata una Moglie. Se la coppia non riesce ad avere figli, viene loro assegnata un’Ancella, una madre surrogata  il cui unico compito è quello procreare.

Le Ancelle non hanno nulla, neppure un nome: assumono il patronimico del Comandante cui sono assegnate (Difred, Diglen, Diwarren) e  vivono una vita monotona e oppressa.
Ne “Il Racconto dell’Ancella” la narrazione si srotola sotto la voce di Difred (Offred, in lingua originale), la nostra protagonista, un’Ancella delle tante che racconta la sua storia con uno stile monocorde e ripetitivo, proprio come lo scorrere dei suoi giorni.

Mi alzo, mi muovo nella luce del sole, i piedi nelle scarpe rosse senza tacchi, per risparmiare la spina dorsale e non per ballare. I guanti rossi sono posati sul letto. Li prendo, me li infilo, dito per dito. Tranne le alette che porto ai lati del viso, tutto è rosso: il colore del sangue, che ci definisce. La gonna scende sino alle caviglie, ampia, raccolta in uno sprone piatto che si allarga sul petto, le maniche sono lunghe. Anche le alette bianche sono dotazione obbligatoria; servono a impedirci di vedere, ma anche di essere viste. Il rosso non mi ha mai donato, non è il mio colore.

Quello che ne esce fuori, però, è paragonabile a un canovaccio sgualcito: il point of view individuale è troppo limitante, i fatti risultano opachi, sbiaditi, privi di contorni definiti; è una narrazione pallida e fin troppo soggettiva.
Se con l’Io narrante ci si dovrebbe concentrare sulla personalità del protagonista, in The Handmaid’s tales  questo compito risulta difficile, perché il personaggio di Difred risulta totalmente annullato:  senza carattere,  schiavizzata,  agli occhi del lettore appare come un guscio vuoto, privo di profondità ed è viva la costante e inesorabile sensazione di  cupio dissolvi.  In questo la Atwood è stata davvero brava, ma non segue uno schema preciso e si muove con troppa libertà: concede ai lettori un piccolo accenno alle parti più importanti, mentre calca la penna su quelle insignificanti e pressoché inutili, lasciando profondi buchi nella trama e tante domande prive di risposta.

Ai piedi della scala c’è un attaccapanni-portaombrelli, di legno ricurvo, lunghe stecche di legno che si curvano delicatamente a formare dei ganci dalla forma di felci che si aprono. Ci sono vari ombrelli lì: nero, per il Comandante, blu, per la Moglie del Comandante, e quello assegnato a me, che è rosso. Lascio l’ombrello rosso dove si trova, perché ho visto dalla finestra che la giornata è serena.

 Oppure

Ho visto che aveva le labbra sottili, con delle sottili rughe verticali ai lati, come si vedevano nella pubblicità dei cosmetici.

E un paio di pagine dopo, la Atwood pensa bene di ricordarcelo, come fosse propedeutico o di vitale importanza per i fatti che verranno narrati:

Il naso un tempo doveva essere stato ciò che si definisce grazioso ma ora era troppo piccolo per la sua faccia, che non era grassa ma grande. Due rughe le scendevano agli angoli della bocca, ai lati del mento, stretto come un pugno.

Le anafore abbondano, soprattutto nella prima parte del romanzo: sono ossessive, disturbanti, e oscurano così tanto l’ambientazione da renderla nebulosa, un puzzle incompleto, una struttura traballante. Di riflesso, anche gli altri personaggi risultano poco chiari e credibili. Sono affettati, forzati, di poco spessore.

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Un’illustrazione di Anna + Elena Balbusso

Se dal punto di vista puramente narrativo, come già spiegato, si tratta, di un romanzo che non ha una forte presa sul lettore, dal punto di vista della morale, dell’etica, dei diritti inalienabili dell’uomo, è molto attuale: tra le sue righe traspare il sentore di qualcosa di attuale, di già accaduto. Difred è una di noi. È qualsiasi uomo, donna, bambino cui vengono tolti il diritto alla libertà, il diritto alla vita, il diritto a un giusto processo, il diritto a un’esistenza dignitosa, il diritto alla libertà religiosa…

Ogni giorno, in tutte le parti del mondo, questi diritti vengono calpestati, disprezzati e disconosciuti. Una vera e propria barbarie, un’iperbole che dal passato è arrivata fino ai giorni nostri, e non accenna a fermarsi.

[Il racconto dell’ancella, Margaret Atwood. Trad. C. Pennati. Ed. Ponte Alle Grazie]

 

[Recensione] Il bacio della donna ragno

– Lei si vede che ha qualcosa di strano, che non è una donna come tutte. Molto giovane, un venticinque anni tuttalpiù, con un faccino un po’ da gatta, il naso piccolo, all’insù, il taglio della faccia è… più rotondo che ovale, la fronte spaziosa, le guance pure grandi ma che poi scendono giù a punta, come i gatti.

-E gli occhi?

-Chiari, quasi di sicuro verdi, li socchiude per disegnare meglio. Guarda il modello, la pantera nera dello zoo, che prima se ne stava pacifica nella gabbia, accucciata. Ma quando la ragazza ha fatto rumore col cavalletto e lo sgabello, la pantera l’ha vista e ha cominciato a girare per la gabbia e a ruggire contro la ragazza, che fino allora non aveva trovato il chiaroscuro giusto da dare al disegno.

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[Recensione] Candy

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<<Ecco qui. Ora, tu scrivi: “Concedere pienamente se stesse non è un semplice obbligo imposto da un superstizione all’antica, ma un privilegio meraviglioso ed emozionante”>>.

Abbassò i fogli e fissò la ragazza con sguardo interrogativo, sollevando di nuovo il bicchiere di sherry.
<<Cosa intendeva dire qui, mia casa?>>

Candy si agitò un po’ sulla sedia.

<<Ma…>> farfugliò <<…forse è sbagliato? È quello che aveva detto lei, ne sono abbastanza sicura…>>.

Il professor Mephesto si alzò in piedi, unendo le mani e levando lo sguardo al soffitto.

<<Se è sbagliato…?>> domandò meravigliato. <<Mia cara! Mia casa, adorata ragazza… certo che è giusto! Va benissimo!>>

Andò su e giù per la stanza, declamando: <<Concedere pienamente se stesse non è un semplice obbligo imposto da un superstizione all’antica, ma un privilegio meraviglioso ed emozionante>>.

[…]

<<E i pesi, le necessità umane>> le disse con amabile schiettezza <<sono così profonde e… dolorose>>.

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[Recensione] Abbiamo sempre vissuto nel castello

Mi chiamo Mary Katherine Blackwood. Ho diciott’anni e abito con mia sorella Constance. Ho sempre pensato che con un pizzico di fortuna potevo nascere lupo mannaro, perché ho il medio e l’anulare della stessa lunghezza, ma mi sono dovuta accontentare. Detesto lavarmi, e i cani, e il rumore. Le mie passioni sono mia sorella Constance, Riccardo Cuor di Leone e l’Amanita phalloides, il fungo mortale. Gli altri membri della famiglia sono tutti morti.

In poche righe Shirley Jackson racchiude un mondo, quello di Merricat e Constance.

In “Abbiamo sempre vissuto nel castello” ritroviamo la delicatezza e il genio dell’autrice, già presente in “L’incubo di Hill House” e “La lotteria”. Ma se nel primo abbiamo a che fare con un’entità apparentemente soprannaturale e uno stile allusivo, nel secondo con uno spietato e ambiguo pragmatismo, con questa opera il registro della Jackson muta in qualcosa di diverso: ci sembra controletture-we-have-always-lived-in-the-castledi vivere un’esistenza surreale ma al tempo stesso vera, autentica, intima; tutti gli elementi di una fiaba sono combinati tra loro con perfetta maestria: atmosfere tenui e velate, una sorella da proteggere, strani rituali e parole magiche, oggetti sotterrati e Cattivi da combattere.

La narratrice è Merricat, una ragazza che in quelle tinte gotiche risplende come un prisma colpito dal sole. È innocente e capricciosa come una bambina piccola, Mary Katherine, ma intelligente e spietata come nessun altro. È una Blackwood, una ricca e temuta famiglia, e come tutti i loro è vittima di diffidenza e odio. Merricat, legatissima al gatto Jonas, vive insieme alla sorella Constance, una giovane donna rinchiusa nel proprio mondo (la cucina), terrorizzata dall’ambiente esterno ed accusata di aver avvelenato, qualche anno prima, quasi tutta la sua famiglia mescolando arsenico nello zucchero. Con le due sorelle, nell’enorme casa in una tenuta del Vermont, vive lo zio Julian, un uomo colto ed elegante – aggiungerei quasi raffinato – legato al passato e abbarbicato a ricordi che non vuole lasciare andare, sopravvissuto all’avvelenamento con forti ripercussioni sul suo fisico.

Merricat, disse Connie, tè e biscotti: presto, vieni.
Fossi matta, sorellina, se ci vengo m’avveleni.
Merricat, disse Connie, non è ora di dormire?
In eterno, al cimitero, sottoterra giù a marcire!

I tre protagonisti sono intrappolati nel proprio mondo, in isolamento, banditi, perseguitati e derisi dagli abitanti del piccolo villaggio, barricati in un bunker fatto di
mattoni, porte e finestre e routine. Merricat è l’unico collegamento che lo zio Julian e Constance hanno con l’esterno ed è l’unica che ha il coraggio di esporsi al dileggio.

Puerile e selvaggia, Mary Katherine, per lei la vita è un gioco. Terrorizzata e un po’ dipendente/succube della sorella, Constance.

Andando a fare la spesa feci un gioco. Mi ispirai a quei giochi da tavolo infantili in cui ogni giocatore lancia il dado e procede; c’è sempre un pericolo in agguato, per esempio «stai fermo un turno» o «retrocedi di quattro caselle» o «torna al via», e piccoli vantaggi, come «avanza di tre caselle» o «tira di nuovo».

 
Ma quando quella routine si spezza, quando la sicurezza costruita con tanto impegno e quando sensazione di pericolo e di disagio avanzano come una marea e contagiano l’animo delle nostre protagoniste, l’inquietante e vera essenza dei Blackwood si erge al di sopra di tutto, orgogliosa e fiera, con un finale degno proprio di una fiaba e costringendo gli abitanti del villaggio a una quasi catartica redenzione.

Una storia, un racconto dolce amaro, un’iperbole che sfiora il terrore, il dramma e l’horror. Un romanzo che non vuole essere pretenzioso, ma che un insinua nel lettore un graduale stato di angoscia.

 Shirley Jackson, musa di autori del calibro di Richard Matheson, Stephen King e Neil Gaiman, non sbaglia. Mai. Le sue parole sono insegnamento e si fondano su una nuova e senza precedenti teologia dell’inquietudine.

Da leggere. Assolutamente.

Alla prossima

Sil.

[Recensione] La mano sinistra di Calvus

L’ex gladiatore Saevius è certo che la Fortuna gli stia sorridendo quando un politico pompeiano lo compra per farne la sua guardia del corpo. Almeno finché il suo nuovo padrone, Calvus Laurea, ordina a Saevius di scoprire con che gladiatore sua moglie stia avendo una sordida relazione. Per riuscirci, Saevius deve tornare nell’arena, ad allenarsi insieme agli uomini che sta spiando. Peggio ancora, adesso è agli ordini di Drusus, un lanista notoriamente crudele… eppure stranamente intrigante.

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[Recensione] L’amante

Foreste incantate e città dentro alle foreste; clima caldo marguerite duras l'amante recensione controlettureumido, di quello che si appiccica addosso e non fa respirare; immense lagune, rigogliose vegetazioni, baie sconfinate, terrazze infinite di riso bruciate dal sole che tramonta, dolci e succulenti frutti esotici…

Con questi elementi, Marguerite Duras – all’anagrafe Marguerite Germaine Marie Donnadieu – campisce magistralmente una tela bianca, raccontando, con pennellate secche e decise, dirette, la storia di un amore impossibile, sanguigno, alimentato dal desiderio della carne e di denaro; una storia di odio e indifferenza.

I miei fratelli non gli rivolgeranno mai la parola, come se fosse invisibile, come se non fosse abbastanza consistente per essere percepito, visto, sentito da loro. Questo perché lo vedono ai miei piedi, perché hanno stabilito che non l’amo, che sto con lui per i soldi, che non posso amarlo, è impossibile, e lui è pronto a sopportare tutto da me senza mai ottenere il mio amore.

È strano come la Duras racconta la (sua) storia. La narrazione, di base, è in prima persona singolare, un io narrante che dalle informazioni che sono riuscita a reperire si identifica nella scrittrice stessa. La cosa peculiare, quella che colpisce di più è il sentore di un certo distacco nel raccontare particolari episodi, quelli più personali, intimi, come se l’autrice – o la protagonista – volesse alienarsi dalla realtà e narrare pezzi di vita vissuti da un’altra.

La casa è costruita su un terrapieno che la isola dal giardino, dai serpenti, dagli scorpioni, dalle formiche rosse, dalle inondazioni del Mekong, da quelle che seguono ai tifoni nella stagione monsonica. Questo permette di lavarla con grandi secchiate d’acqua, di annaffiarla come un giardino. Le sedie sono capovolte sui tavoli, l’acqua gronda e ricopre i piedi del pianoforte del salottino, scende dalle scalinate esterne, invade il portico davanti alla cucina. I piccoli boys sono felici, ci spruzziamo d’acqua insieme a loro e poi insaponiamo il pavimento con il sapone di Marsiglia. Siamo tutti a piedi nudi, anche mia madre.
La madre ride, non protesta. Tutta la casa profuma dell’odore delizioso di terra bagnata dal temporale, un odore che fa impazzire di gioia, soprattutto quando è mischiato all’altro, quello del sapone di Marsiglia, odore puro, onesto, l’odore della biancheria pulita di nostra madre, dell’immenso candore di nostra madre.

marguerite duras l'amante recensione controletture Huynh ThuyLa protagonista, di cui non sapremo mai il nome perchè non viene mai menzionato, ha quindici anni. Veste in modo strambo e questa sua particolarità attira l’attenzione di un milionario ragazzo cinese molto più grande di lei.

Nasce un amore, lussureggiante germoglio, che sboccia e fiorisce in una stanza di albergo e in essa si confina, tra un corpo troppo esile, quasi malaticcio, e un corpo ancora acerbo; incontri venali, titubanti, indifferenti, a volte carichi di compassione, tristezza, odio e fatalismo; un amore avversato non solo dalla famiglia del ragazzo, ma anche da quella di lei, soprattutto dal fratello maggione, pitturato come dispotico padre-padrone, nonostante il legame tra i due giovani frutti non pochi quattrini.

 

Quindici anni e mezzo. Certe cose si sanno presto a Sadec. Basta vedere come si veste per capire che è disonorata. La madre è un’insensata, non è quello il modo di allevare una bambina. Povera figliola.
Quel cappello, vi dico, non è innocente, e neppure quel rossetto, significa qualcosa, è per attirare gli sguardi, il denaro. I fratelli, dei mascalzoni. Dicono che è un cinese, il figlio del miliardario, quello che ha la villa sul Mekong, con la ceramica azzurra. Persino lui, invece di sentirsi onorato, non la vuole per suo figlio, non vuole questa bianca che appartiene a una famiglia di mascalzoni.

 

marguerite duras l'amante recensione controlettureE se è vero che il primo amore non si scorda mai, quello della ragazza-senza-nome e del milionario ragazzo cinese è destinato a sopravvivere agli anni e ai cuori di molte persone.

Un testo nudo e crudo, tagliente, una lama che affonda nella carne e lascia profonde cicatrici, che cozza con la dolce e tenera storia in esso raccontata.

Un testo impegnativo, che richiede la giusta attenzione, ma che vale la pena leggere.

Curiosità: Dal romanzo della Duras, nel 1992 Jean-Jacques Annaud ha diretto il film L’amante (L’amant).

Alla prossima

Sil.