Ora Rachele vide che non poteva partorire figli a Giacobbe, perciò Rachele divenne gelosa di sua sorella e disse a Giacobbe: «Dammi dei figli, altrimenti muoio».
Giacobbe si adirò contro Rachele e rispose: «Tengo io forse il posto di Dio che ti ha negato il frutto del grembo?». Allora ella disse: «Ecco la mia serva Bilha. Entra da lei e lei partorirà sulle mie ginocchia; così anch’io potrò avere figli per suo mezzo». Genesi 30; 1-3.
“Il racconto dell’Ancella” (The Handmaid’s tales) è un romanzo ambientato in un futuro non meglio precisato, dove un colpo di stato ha rovesciato quelli che conosciamo come gli Stati Uniti d’America instaurando un regime teocratico, l’immaginaria Repubblica di Galaad, il cui credo religioso si fonda sul richiamo biblico appena citato e sull’oppressione delle donne.
Ai vertici ci sono i Comandanti, a cui viene assegnata una Moglie. Se la coppia non riesce ad avere figli, viene loro assegnata un’Ancella, una madre surrogata il cui unico compito è quello procreare.
Le Ancelle non hanno nulla, neppure un nome: assumono il patronimico del Comandante cui sono assegnate (Difred, Diglen, Diwarren) e vivono una vita monotona e oppressa.
Ne “Il Racconto dell’Ancella” la narrazione si srotola sotto la voce di Difred (Offred, in lingua originale), la nostra protagonista, un’Ancella delle tante che racconta la sua storia con uno stile monocorde e ripetitivo, proprio come lo scorrere dei suoi giorni.
Mi alzo, mi muovo nella luce del sole, i piedi nelle scarpe rosse senza tacchi, per risparmiare la spina dorsale e non per ballare. I guanti rossi sono posati sul letto. Li prendo, me li infilo, dito per dito. Tranne le alette che porto ai lati del viso, tutto è rosso: il colore del sangue, che ci definisce. La gonna scende sino alle caviglie, ampia, raccolta in uno sprone piatto che si allarga sul petto, le maniche sono lunghe. Anche le alette bianche sono dotazione obbligatoria; servono a impedirci di vedere, ma anche di essere viste. Il rosso non mi ha mai donato, non è il mio colore.
Quello che ne esce fuori, però, è paragonabile a un canovaccio sgualcito: il point of view individuale è troppo limitante, i fatti risultano opachi, sbiaditi, privi di contorni definiti; è una narrazione pallida e fin troppo soggettiva.
Se con l’Io narrante ci si dovrebbe concentrare sulla personalità del protagonista, in The Handmaid’s tales questo compito risulta difficile, perché il personaggio di Difred risulta totalmente annullato: senza carattere, schiavizzata, agli occhi del lettore appare come un guscio vuoto, privo di profondità ed è viva la costante e inesorabile sensazione di cupio dissolvi. In questo la Atwood è stata davvero brava, ma non segue uno schema preciso e si muove con troppa libertà: concede ai lettori un piccolo accenno alle parti più importanti, mentre calca la penna su quelle insignificanti e pressoché inutili, lasciando profondi buchi nella trama e tante domande prive di risposta.
Ai piedi della scala c’è un attaccapanni-portaombrelli, di legno ricurvo, lunghe stecche di legno che si curvano delicatamente a formare dei ganci dalla forma di felci che si aprono. Ci sono vari ombrelli lì: nero, per il Comandante, blu, per la Moglie del Comandante, e quello assegnato a me, che è rosso. Lascio l’ombrello rosso dove si trova, perché ho visto dalla finestra che la giornata è serena.
Oppure
Ho visto che aveva le labbra sottili, con delle sottili rughe verticali ai lati, come si vedevano nella pubblicità dei cosmetici.
E un paio di pagine dopo, la Atwood pensa bene di ricordarcelo, come fosse propedeutico o di vitale importanza per i fatti che verranno narrati:
Il naso un tempo doveva essere stato ciò che si definisce grazioso ma ora era troppo piccolo per la sua faccia, che non era grassa ma grande. Due rughe le scendevano agli angoli della bocca, ai lati del mento, stretto come un pugno.
Le anafore abbondano, soprattutto nella prima parte del romanzo: sono ossessive, disturbanti, e oscurano così tanto l’ambientazione da renderla nebulosa, un puzzle incompleto, una struttura traballante. Di riflesso, anche gli altri personaggi risultano poco chiari e credibili. Sono affettati, forzati, di poco spessore.
Se dal punto di vista puramente narrativo, come già spiegato, si tratta, di un romanzo che non ha una forte presa sul lettore, dal punto di vista della morale, dell’etica, dei diritti inalienabili dell’uomo, è molto attuale: tra le sue righe traspare il sentore di qualcosa di attuale, di già accaduto. Difred è una di noi. È qualsiasi uomo, donna, bambino cui vengono tolti il diritto alla libertà, il diritto alla vita, il diritto a un giusto processo, il diritto a un’esistenza dignitosa, il diritto alla libertà religiosa…
Ogni giorno, in tutte le parti del mondo, questi diritti vengono calpestati, disprezzati e disconosciuti. Una vera e propria barbarie, un’iperbole che dal passato è arrivata fino ai giorni nostri, e non accenna a fermarsi.
[Il racconto dell’ancella, Margaret Atwood. Trad. C. Pennati. Ed. Ponte Alle Grazie]